''LA VERITA' E' COME UNA VITAMINA, SAPERE I PERCHE' AIUTERA' A RICOSTRUIRE''

LE INCHIESTE. PICUTI, IL PM DEI CROLLI: ”LE CASE NON ERANO FATTE DI SABBIA”

di Alberto Orsini

4 Aprile 2014 21:56

L'Aquila -

L’AQUILA – “La verità è come una vitamina che ricostituisce il tessuto sociale dell’Aquila in vista della ricostruzione. Più di sapere chi sono i responsabili dei crolli, è importante conoscere perché quegli edifici 5 anni fa siano crollati, e lasciarne testimonianza per il futuro. Con le nostre indagini abbiamo fatto emergere i fatti dei crolli dal limbo del mistero e dell’incertezza”.

Dopo 5 anni dalle prime indagini sui crolli che hanno causato 309 vittime, è questa la soddisfazione più grande per il sostituto procuratore dell’Aquila Fabio Picuti, uno dei pm della squadra capitanata dal procuratore della Repubblica Fausto Cardella e, all’epoca del sisma, dallo scomparso Alfredo Rossini: aver trovato riscontri e sfatato dei miti, come quello della sabbia al posto del cemento, “che non c’era, io conosco le perizie”.

Picuti, aquilano, è in particolare il pubblico ministero del processo alla commissione Grandi rischi, quello “alla scienza” che ha fatto il giro di tutti i media italiani ed esteri, che ha visto 7 esperti condannati per aver falsamente rassicurato gli aquilani prima della scossa, facendoli rimanere nelle case dove hanno trovato la morte.

Più in generale, è il pm che ha portato avanti uno a uno tutti i circa 200 filoni della cosiddetta “maxi inchiesta” sui crolli della procura, 20 dei quali sono diventati un processo concluso oppure in corso. E su questi processi, ma non solo, Picuti accetta di fare il punto con AbruzzoWeb in un’intervista approfondita.

“Le sentenze, fino a oggi – sottolinea – hanno dato una prima verifica provvisoria della tesi accusatoria. La scossa delle 3.32, pur essendo stata forte, non rappresenta una causa atipica e anomala idonea a spiegare da sola il crollo degli edifici”. Di qui le responsabilità umane.

Quanto al processo Grandi rischi, quello che lo ha reso in qualche modo famoso, “per me, è stato più lungo, complesso e delicato di altri, e ha richiesto un livello di impegno maggiore rispetto ad altri. Ma non ha più importanza degli altri processi”, spiega.

E da cittadino, Picuti è stato rassicurato dalla Cgr? “Ricordavo la riunione, perché lavoravo all’Aquila già da alcuni mesi, oltre che viverci, ma non era qualcosa a cui avevo prestato attenzione”, ammette.

Il procuratore rivolge un ricordo affettuoso al procuratore Rossini, suo mentore professionale nel capoluogo abruzzese e nella sede precedente, a Rieti. E in particolare evidenzia il comportamento da ‘grande comunicatore’ che il suo superiore assunse subito dopo il sisma.

“Si rendeva conto che l’opinione pubblica aveva diritto di essere informata. Dava informazioni su una vicenda che aveva risvolti più grandi rispetto a quelli giuridici. Ma non l’ho mai sentito parlare di atti investigativi coperti da segreto. Voleva dire che l’azione degli organi giudiziari era viva e presente, e che le indagini erano in corso”.

Che cosa ricorda della prima riunione operativa della procura della Repubblica dopo il terremoto?

Era la mattina del 7 aprile quando è venuto il procuratore Rossini e abbiamo fatto un giro per la città. Il giorno seguente c’è stato il primo atto scritto investigativo del procuratore, firmato alla Scuola della Guardia di finanza a Coppito. Ci era stata rappresentata una situazione sanitaria piuttosto critica: i corpi delle persone decedute erano allineati nell’hangar della Scuola ed era caldo. Rossini ha disposto una ricognizione dei cadaveri da parte del medico legale Giuseppe Calvisi, con riconoscimenti e fotografie. Ha scritto l’atto di suo pugno, in piedi, su un foglio bianco, concedendo il nulla osta per il seppellimento di tutte le vittime dopo quegli accertamenti. Si trattava di circa 270 persone, tutte quelle per le quali si sono svolti i funerali di Stato.

Quando invece avete cominciato a indagare sui crolli?

Immediatamente dopo, il 10 aprile, abbiamo nominato consulenti per accertare le cause del crollo di tutti quei palazzi. La consapevolezza che si dovesse indagare sui crolli era immediata, ci siamo resi subito conto che le morti fossero avvenute per il crollo. Il primo passo è stato una sorta di censimento dei palazzi crollati in cui c’erano state vittime, in quale strada e a quale numero civico. Alcune notizie sono state apprese solo qualche giorno dopo: in alcuni casi si incrociavano strade, come nel crollo tra via Sant’Andrea, via Rossi e via Cola dell’Amatrice, dove erano caduti tre palazzi. Sono cominciati numerosi sopralluoghi della polizia giudiziaria e dei vigili del fuoco. E poi abbiamo iniziato a collocare le vittime esattamente negli edifici.

Qual era la prima cosa da accertare?

I motivi del crollo, come mai fossero crollati solo alcuni stabili e non tutti. Relativamente alle sole case in cemento armato, è venuto giù lo 0,8% dell’intero patrimonio edilizio. Questo tipo di risposta poteva venire solo dai consulenti tecnici, di qui la nomina del 10 aprile di Francesco Benedettini e Antonello Salvatori.

In che condizioni si lavorava nella prima emergenza?

Non avendo più un ufficio perché il tribunale era inagibile, la procura era ospitata in una tenda da campo all’interno del piazzale del comando provinciale dei carabinieri dell’Aquila. C’erano la bandiera della Repubblica e il vessillo dell’Aquila che avevamo recuperato dai nostri locali, un banchetto con due sedie e il mio computer portatile.

Avete realizzato una mappa dei crolli per orientarvi meglio?

Sì, i consulenti hanno agito a stretto contatto con i vigili e la polizia giudiziaria e poi è stata creata una mappa. Grazie a un sopralluogo aereo con un elicottero, è stata scattata una foto che riprendeva la città grande circa 2 metri e mezzo, a risoluzione dettagliata, che ora si trova nella stanza del mio prezioso collaboratore, l’ispettore della Forestale Alberto Maurizi: in questo modo vedevamo bene i luoghi dei crolli e potevamo posizionare le vittime.

Quanto era difficile trovare informazioni dettagliate in quella fase concitata?

Tra i ragazzi della Casa dello studente c’era il portiere e quella sera non era in servizio, ma era comunque lì, dalla fidanzata. Che lui fosse morto sotto le macerie ce lo hanno detto i genitori. Per tanti giovani studenti fuorisede, che hanno perso la vita in via D’Annunzio o via Campo di Fossa, abbiamo dovuto chiedere ai parenti in quale palazzo alloggiassero. È stata un’attività investigativa complessa, fatta nell’immediatezza della tragedia e con grande abnegazione.

Per lei essere aquilano ha costituito un vantaggio o addirittura uno svantaggio?





Nessuna delle due. Certo, ero l’unico che conosceva già bene la città e avevo una percezione immediata dei luoghi interessati da questa attività.

Nulla sul piano umano?

Né io, né Rossini, né la mia collega Roberta D’Avolio, che insieme a me ha seguito il dibattimento nei processi Grandi rischi e Convitto nazionale, abbiamo avuto condizionamenti derivanti da rapporti umani e sentimenti, in generale credo di poter dire che tutta la polizia giudiziaria, tra i quali gli ispettori Gianluca Iemmolo e Giuseppe Dente, ha svolto il suo lavoro in modo professionale. Ci siamo trovati di fronte a scene toccanti, come quella dei cadaveri che citavo all’inizio, oppure quando abbiamo sentito a sommarie informazioni i parenti delle vittime, o ancora durante i sopralluoghi nei palazzi crollati, entrando a contatto con oggetti che dicevano tanto di vite passate. Un’esperienza profonda che lascia un segno indelebile. Questo aspetto è innegabile, ma al di là di questo tutti hanno svolto il loro lavoro in modo professionale.

Qual è stata la strategia di indagine e quando si è deciso di evitare un unico maxi processo in favore di separati filoni d’inchiesta?

Da subito. Il metodo investigativo è stato di fare una ricognizione degli edifici, case, palazzi, ville, con decessi. Ciascuno di essi ha poi dato luogo a un singolo fascicolo. Alcuni edifici erano senza morti, ma molto danneggiati e particolarmente rilevanti per interesse pubblico o strategico, come l’ospedale o il tribunale, o palazzo Margherita, sede del Comune, o ancora palazzo Carli, il rettorato dell’Università. Ne sono scaturiti 200 procedimenti, di questi 20 sono andati a giudizio perché sono state accertate le cause del crollo e sono stati individuati soggetti vivi cui riferire responsabilità penalmente rilevanti. Per gli altri c’è stata la richiesta di archiviazione.

Per molti crolli non ci sono stati indagati.

Faccio un esempio, quello del comune di Villa Sant’Angelo oppure della frazione di Onna: a fronte di tanti crolli e numerose vittime, non abbiamo istruito processi perché, dopo le verifiche, le consulenze ci hanno detto che le case sono crollate in quanto costruite agli inizi del ‘900, con materiali poveri e vulnerabili sin da 100 anni prima, e i proprietari, forse ignari, non avevano posto in essere opere antisismiche adeguate. Non c’erano soggetti reali cui riferire quei difetti e quelle vulnerabilità. Problemi simili li abbiamo avuti anche per alcuni palazzi aquilani. In un palazzo con ben 23 morti, in via Campo di Fossa al civico 6B, quel protocollo investigativo ha accertato che le cause del crollo erano riferibili a gravi difetti progettuali e costruttivi. La costruzione risaliva agli anni Sessanta, avevamo la possibilità di addebitare quei difetti a persone e lo abbiamo fatto, solo che progettisti, funzionari, impiegati erano tutti deceduti e già da alcuni anni. Abbiamo indicazioni sulle cause del crollo, ricavabili dalle consulenze, sappiamo chi sono le persone responsabili, ma se sono morte nel nostro ordinamento non si può fare un processo penale contro di loro.

Il processo alla commissione Grandi rischi costituisce un capitolo a parte. Per cominciare, lei come cittadino è stato rassicurato da quella riunione?

La ricordavo la riunione, perché lavoravo all’Aquila già da alcuni mesi, oltre che viverci, ma non era qualcosa a cui avevo prestato attenzione. Ricordo bene anche lo sciame sismico, una mattina ero in ufficio con Rossini e abbiamo sentito due boati anche se senza percepire il tremore dell’edificio. Ma coinvolgimenti personali nelle indagini non ce ne sono.

Come è cominciato quel filone d’inchiesta?

Nell’agosto 2009, con l’avvocato Antonio Valentini, che ha depositato una denuncia che lamentava l’operato e le indicazioni della Cgr, che si erano rivelate poco probanti. Contemporaneamente il figlio di una coppia morta in via Campo di Fossa, Guido Fioravanti, figlio dell’avvocato Fioravanti e Franca Ianni, si era presentato spontaneamente in procura, dicendomi che, per accertare le cause del crollo, aveva documentazione sull’edificazione del suo palazzo. Mentre l’ufficiale di pg stilava il verbale di acquisizione di quegli atti, Fioravanti ha voluto aggiungere una sua considerazione: “Secondo me molte persone sono morte non solo perché è crollato il loro palazzo, ma perché si trovavano dentro loro malgrado. Mio padre credeva nelle istituzioni, aveva l’abitudine di uscire di casa subito dopo una scossa, ma dopo la riunione di quella commissione non ha più attuato questi comportamenti”. Quelle dichiarazioni sono state verbalizzate e tecnicamente costituivano una notizia di reato, ma più che altro sono servite da stimolo per comprendere che cosa volessero dire gli aquilani parlando di “rinuncia ai comportamenti perché rassicurati”.

Sempre in tema di Grandi rischi, ha avuto subito chiaro che sarebbe stato un processo fortemente mediatico e quindi diverso, più “grosso” di altri?

Quando lavoriamo non lo facciamo pensando a quanti titoli di giornale si faranno. Il nostro unico obiettivo è accertare i fatti e applicare le regole. Non c’era il pensiero su chissà che cosa avrebbe scatenato quel processo a livello mediatico. È un pensiero estraneo alla nostra attività e poi, in quei mesi, i media si erano già sufficientemente sbizzarriti sull’Aquila, c’era una convivenza quotidiana con troupe televisive e organi di informazione.

Il procuratore Rossini ha inaugurato in quei mesi una stagione inedita di grande comunicazione da parte della procura, perché lo ha fatto?

Rossini rilasciava interviste e aveva frequenti contatti con la stampa. Questo non derivava dalla volontà di apparire, ma da un intento più nobile che forse non è stato valutato per quello che era. Il procuratore sapeva che il terremoto aveva devastato una città, causato tanti morti, inciso sull’economia e sui rapporti sociali: si rendeva conto che l’opinione pubblica aveva diritto di essere informata. Dava informazioni su una vicenda che aveva risvolti più grandi rispetto a quelli giuridici. Ma non l’ho mai sentito parlare di atti investigativi coperti da segreto o svelare notizie riservate. Voleva dire che l’azione degli organi giudiziari era viva e presente, e che le indagini erano in corso. Ha mostrato capacità di interfacciarsi e credo che l’abbia fatto bene, ha salvaguardato il segreto istruttorio e l’efficacia dell’azione dell’ufficio e dall’altro lato non si è chiuso in una stanza impedendo al resto del mondo di sapere.

Oggi la procura è tornata silenziosa.

Nel 2009 e nel 2010 c’era una situazione straordinaria, le istituzioni vivevano un momento di estrema difficoltà, in quel momento comunicare era un’esigenza vitale. Oggi la situazione si è in qualche modo normalizzata, anche se non certo tornata com’era prima. Le due situazioni non sono paragonabili.

Dopo 5 anni di indagine, che bilancio dà della cosiddetta “maxi inchiesta crolli”?

Le sentenze, fino a oggi, hanno dato una prima verifica provvisoria della tesi accusatoria. La scossa delle 3.32, pur essendo stata forte, non rappresenta una causa atipica e anomala idonea a spiegare da sola il crollo degli edifici. Uno dei capisaldi è l’articolo 41 del Codice penale: se c’è una causa che assorbe tutte le altre, diventa sufficiente a spiegare l’accaduto. Se fosse prevalsa la tesi del terremoto eccezionale, del tutto atipico e non prevedibile, non si potrebbe parlare di concause umane. Secondo l’interpretazione accusatoria, invece, la scossa è una delle concause assieme a difetti costruttivi o relativi alla scarsa qualità dei materiali. Le prime sentenze hanno confermato questa impostazione accusatoria, prima di tutto che il sisma fosse un evento non eccezionale. È una prima verifica, provvisoria, dato che nel nostro ordinamento è prevista anche la verifica di secondo grado in Appello e quella sulla legittimità davanti alla Cassazione.

Ha il timore che i successivi gradi di giudizio possano smantellare questa impostazione accusatoria?

Lavoro alla procura della Repubblica e mi interesso di svolgere il lavoro del primo grado di giudizio. Quello che accadrà in Appello o in Cassazione in qualche modo esula dalla mia competenza e soprattutto dalla mia possibilità di incidere. Quello che accadrà dopo è di competenza di altri.

Come nel caso delle indagini su Guido Bertolaso nella cosiddetta “Grandi rischi 2”, prese in carico da un altro organo dopo le sue due richieste d’archiviazione contestate dalle parti civili?





In quel caso c’è stata l’avocazione della procura generale e quindi quell’organo farà le sue decisioni: rientra tutto nell’ambito delle regole, non c’è niente di anomalo. Le avocazioni non sono frequentissime ma ci possono stare, le parti lese svolgono la loro attività. Offrono il loro contributo nell’ambito di regole disciplinate.

C’è troppa pervicacia a voler trovare una colpa per Bertolaso, secondo lei?

Non è pervicacia, è l’utilizzo negli strumenti del codice. La pervicacia potrebbe essere pure quella del pm a chiedere l’archiviazione!

Le inchieste sui crolli non sono mai state sfiorate dal grande tema delle infiltrazioni mafiose.

Sono inchieste di tipo tecnico. Si sono verificati progetti, norme antisismiche, si sono prelevati materiali, i consulenti hanno vagliato l’operato di progettisti e costruttori degli anni Cinquanta e Sessanta, non ci siamo posti il problema infiltrazioni in quegli anni, non erano molti gli accertamenti che si potevano compiere in tal senso.

Un caso specifico, per la verità, c’è stato.

Qualche settimana dopo il sisma, si disse e si scrisse che per costruire alcuni palazzi fosse stata usata sabbia al posto del cemento e perciò si erano sbriciolati. Sul piano mediatico è un’immagine particolarmente efficace, molto comprensibile, è chiaro che se usi sabbia invece di cemento crolla tutto. In realtà, io che conosco le perizie e le consulenze tecniche che hanno accertato i materiali da costruzione, so che nessuno dice questo. C’erano materiali di scarsa qualità, come cemento male amalgamato con molti “nidi” di ghiaia che i capimastri non avevano mescolato, oppure cemento eccessivamente diluito. Ma non sabbia.

Ci sono stati episodi in cui lei è uscito dal ruolo del pm per diventare più “umano”, come quando ha abbracciato il costruttore De Angelis che aveva appena fatto condannare per il crollo di un palazzo dov’era morta sua figlia. Che cosa ha provato in quella circostanza?

Tra i protagonisti di un processo prima che parti ci sono persone. La base di ciascuna relazione è il rispetto dei ruoli. Io che sostengo l’accusa e l’avvocato che difende la persona imputata non siamo nemici, ci salutiamo, ci offriamo il caffè e ci scambiamo opinioni. Manifestare segni di rispetto o solidarietà verso i propri contraddittori, per quanto mi riguarda, non è sorprendente ma naturale.

Tutto qui?

Con De Angelis c’è stato un qualcosa in più. Premetto che l’imputato è condannato provvisoriamente, non si esclude che la sentenza possa essere ribaltata. Lui era anche il papà di una delle vittime, come non tenere in considerazione questa circostanza! Una vicenda umana dolorosa che non è stata ignorata in istruttoria, mi rendo conto di aver chiesto la condanna di un padre per la morte della figlia. Il gesto di salutarlo con un abbraccio è stato spontaneo, ma anche il suo verso di me. Una reciproca comprensione dei ruoli che rivestivamo. Nel corso della requisitoria più volte ho richiamato la vicenda di San Giuliano di Puglia, dov’era stato condannato il sindaco di quel comune e uno dei 27 bambini morti nel crollo era suo figlio di 10 anni. In quel caso la sentenza è diventata definitiva.

E quando qualcuno si rifiuta di stringerle la mano, come di recente Fabrizio Cimino?

Bisognerebbe chiedere a lui, ma lo capisco. Ho salutato il difensore, ho salutato la moglie, che è un avvocato, e volevo salutare anche lui, che ha tutto il diritto di reagire in quel modo: era stato appena condannato a 3 anni e 6 mesi di carcere. Non mi ha certo offeso.

Che cosa succede quando sotto l’occhio dei media ci finisce il pm, come quando un giornale ha scritto che non sapeva giocare a pallone, o più di recente quando sul Sole 24 Ore è stato citato per la costruzione di un’abitazione di cemento su terreno agricolo?

Questo tipo di processi hanno un rilevante interesse pubblico e anche le persone coinvolte hanno rilevanza mediatica, perciò le rappresentazioni dei media sulle vicende e su di noi che ne siamo parte vanno accettate. Detto questo, il diritto di critica e di cronaca sono diritti costituzionali ma vanno esercitati nell’ambito di alcuni limiti: la continenza verbale, la verità del fatto e l’interesse pubblico. Se si rispettano i limiti, va bene.

Con il cronista del Sole ha più avuto contatti? I limiti sono stati rispettati o lo denuncerà?

Dopo non ho avuto alcun contatto, li avevo avuti prima. Valuterò il da farsi ma sempre in merito ai diritti che dicevo prima, non nell’ambito di un’offesa.

Alcune indagini di questa procura, non seguite da lei, come quella “Do ut des” su presunte tangenti e appalti nella ricostruzione, hanno messo in bilico l’amministrazione comunale e fatto dimettere il sindaco. Quando un pm opera, pensa mai che, in una situazione straordinaria come questa, la ricostruzione post-sisma, un’indagine penale potrebbe costituire il “colpo di grazia” alla reputazione di una città e giocoforza alle sue già poche speranze di rinascita?

In linea generale non credo che le indagini penali possano rappresentare colpi di grazia per un sistema o comportare cambiamenti rivoluzionari. Un’indagine penale non è una rivoluzione, ritengo invece che possa contribuire ad accertare fatti e a evidenziare ai giudici e all’opinione pubblica alcune circostanze e accadimenti non accertati o poco chiari. Il valore di un’inchiesta non è sovvertire sistemi o dare colpi di grazia, questi effetti li hanno le rivoluzioni o le elezioni popolari nelle quali i cittadini esprimono la loro opinione! Le indagini sono contributi di verità nell’accertamento nei fatti. Certo, possono costituire tappe verso processi di rinnovamento o di coscienza civile.

Chiuse le inchieste sui crolli, il suo lavoro continua e continuerà con indagini in qualche modo ordinarie. Potrebbe considerarla una sorta di “diminutio”?

No, si tratta del mio lavoro, non è una diminutio, così come d’altronde non ho considerato le indagini sui crolli come fossi un cavaliere solitario. Le indagini ordinarie non sono un passo indietro rispetto a quell’attività. Questo è il mio lavoro, affrontiamo tutte le vicende in modo del tutto professionale. Il processo Grandi rischi, per me, è stato più lungo, complesso e delicato di altri, e ha richiesto un livello di impegno maggiore rispetto ad altri. Ma non ha più importanza degli altri processi.

Che ne pensa dei procuratori che entrano in politica, buon ultimo il nuovo vice sindaco dell’Aquila, Nicola Trifuoggi? Potrebbe essere un’idea per il suo futuro?

Non lo so. Io mi auguro di fare il pm e basta per i prossimi anni.

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