GENOVESE O STANZA DELLA TORTURA: FASCINO INDISCRETO DELLA BORGHESIA

CINECRITICA: ”PERFETTI SCONOSCIUTI” SPIAZZA, MA NON AFFONDA NELLE CARNI

di Antonio Di Muzio *

17 Febbraio 2016 14:08

Italia -

L’AQUILA – È sicuramente un anno di grazia per il cinema italiano e “Perfetti sconosciuti” di Paolo Genovese ne è un fulgido esempio.

Il film uscito giovedì scorso ha raggiunto il top degli incassi. Grande merito del regista che in passato ha fatto coppia con Luca Miniero. I due sono stati più volte all’Aquila e in Abruzzo.

L’ultima volta nel novembre 2005 al Cinema Don Bosco per una serie di cortometraggi pluripremiati e per il loro Incantesimo Napoletano che aveva vinto anche un David di Donatello.

Nel 1999 sono stati ospiti in Cinema nella Piazze per La scoperta di Walter sempre all’Aquila e nel 2002 a Vasto nel Winter Film Festival per ricevere il Premio (migliore cortometraggio) per Piccole cose di valore non quantificabile.

Più volte abbiamo parlato con loro di metacinema, di Kiarostami, di Kaurismaki, di Kitano (il KKK) e di Dogma danese nelle belle cene post proiezioni all’Aquila. Per poi ripartire per Roma la sera tardi con la loro utilitaria scassata e con un pieno di 10 euro.

Ne è passata di acqua sotto i ponti da allora. In dieci anni i due sono diventati tra i maggiori registi del panorama italiano con commedie che hanno riscosso tanto (Benvenuti al Sud su tutti). Ora Genovese ha fatto un salto in avanti, anche se già con Una famiglia perfetta del 2012 aveva fatto capire di che pasta è fatto.





Con Perfetti sconosciuti il regista si avventura nel teatro nel cinema (e questo può far storcere il naso a qualcuno…) mentre nella Famiglia Perfetta era cinema nel teatro.

In Perfetti sconosciuti Genovese mostra tutti i virtuosismi e grande competenza di cinema. Il film di fatto è come se fosse in presa diretta. Quasi 100 minuti che potrebbero essere un solo piano sequenza con la macchina da presa che per la maggior parte del tempo accarezza i personaggi con la sua circolarità, per poi affondare la sciabolata e ritirarsi nella sua circolarità.

La sinossi è presto detta: tre coppie sposate di amici (Edoardo LeoAlba Rohrwacher, Marco GialliniKasia Smutniak, Valerio MastandreaAnna Foglietta) e un single pseudo fidanzato (Giuseppe Battiston), che si conoscono da una vita, si ritrovano a cena in occasione dell’eclissi lunare.

A un certo punto viene proposto il gioco di mettere sul tavolo tutti gli smartphone e svelare a tutti eventuali telefonate, messaggi e quant’altro. Si arriva a un gioco al massacro dove tutte le certezze verranno demolite con un finale aperto, ma anche amaro.

Il film ricorda molto Compagni di scuola di Verdone (il migliore in assoluto del regista romano), il precedente di Genovese (Una famiglia perfetta), ma in particolare, con i dovuti distinguo, Festen di Thomas Winterberg (chi non lo hai visto cerchi di recuperarlo perché imperdibile e caposaldo della cinematografia contemporanea), il primo film del Dogma danese creato da Lars von Trier.

Al centro di tutto le ipocrisie della borghesia. Ipocrisie che vengono smascherate in una stanza, la stanza della tortura.

Temi sull’omosessualità, rapporto padri-figli, il senso della coppia, della famiglia, del mondo del lavoro, del privato, del pubblico e del segreto. Temi tutti contenuti nello smartphone, la “scatola nera” dei nostri tempi.





Genovese, grazie agli altri quattro sceneggiatori e all’ottimo cast (su tutti Mastandrea e Giallini) prepara un cocktail al cianuro dal crescendo rossiniano utilizzando alla perfezione le unità aristoteliche (tempo-azione-luogo) tipico del teatro dei classici.

La tensione è palpabile e lo spettatore si sente quasi in soggezione quasi stesse partecipando in prima persona a quella cena dalla quale non vede l’ora di andarsene.

Il giuoco delle parti di pirandelliana memoria prende una brutta piega, una piega drammatica ed è qui la frenata di Genovese, invece di affondare nelle carni, sferrare il pugno allo stomaco da ko e far bere l’amaro calice fino all’ultima goccia, sterza verso un finale aperto (?), forse ipocrita? Forse consolatorio? Forse metacinematografico? Forse immaginato? Forse un gioco perverso per fare outing? Un finale tanto “avrei voluto, ma non ho potuto” per questioni commerciali.

Optiamo per il finale ipocrita. Poteva essere l’eclissi totale (come nel film) della famiglia, della coppia borghese e dei sentimenti, purtroppo è solo parziale. Ma di questi tempi ci accontentiamo.

La Festen può iniziare. Caro Paolo la strada è quella giusta. Adesso facci vedere anche l’altra parte della luna. Quella più nera. Da vedere e riflettere.

* giornalista del Messaggero e operatore culturale

Commenti da Facebook

RIPRODUZIONE RISERVATA
Download in PDF©


    Ti potrebbe interessare:

    ARTICOLI PIÙ VISTI: