13 GENNAIO 1915: LO STORICO GIOVANBATTISTA PITONI RACCONTA LA TRAGEDIA

AVEZZANO: I CENTO ANNI DAL TERREMOTO, ”GLI ERRORI E I MIRACOLI DI QUEL DISASTRO”

di Elisa Marulli

13 Gennaio 2015 08:23

L'Aquila - Cronaca

AVEZZANO – Cinque, sei secondi. Interminabili per chi, cento anni fa, si trovava nella Marsica.

Una scossa tremenda, dell’undicesimo grado della scala Mercalli che la registra come “catastrofica”, e di magnitudo 7 nella classificazione Richter.

Avezzano e i centri più vicini furono rasi al suolo in uno dei terremoti più distruttivi della storia d’Italia e di 50 volte più potente dei quello che ha distrutto L’Aquila il 6 aprile 2009.

Lo sconquassamento fu talmente forte da essere avvertito anche a chilometri e chilometri di distanza, arrivando addirittura a Granada, in Spagna, dove un sismografo captò il terremoto.

Alle 7.52 di quel 13 gennaio 1915 il “mostro” sorprese migliaia di persone dentro case, chiese, scuole. In 30 mila morirono sotto le macerie di edifici che collassarono su se stessi.
Anche a Roma si avvertì la terra di tremare e danni furono registrati ad alcuni palazzi, con anche la caduta di una statua della chiesa di San Giovanni in Laterano.

Nonostante questo, però, il governo tardò a intervenire e a comprendere la gravità di quanto accaduto.

Le comunicazioni furono interrotte e l’allarme venne lanciato solo dopo 12 ore dalla scossa dal comune di Sante Marie, che si trova a circa 30 chilometri da Avezzano. I soccorsi arrivarono solo due giorni dopo, quando molti sopravvissuti al terremoto erano ormai morti di stenti.

I numeri di quella tragedia risuonano ancora drammaticamente: ad Avezzano su 11.208 abitanti ci furono 10.719 vittime, a Pescina 5 mila su 10.400, a San Bendetto dei Marsi 3.000 morti su 3.960 abitanti, ma anche a Sora, nel Lazio, ci furono 3.000 vittime su un totale di 17.000 residenti.

Fu il terremoto della tragedia, ma anche quello dei miracoli: come quello di Esterina, una donna che riuscì a partorire sotto le macerie, dalle quali venne estratta solo 48 ore dopo la scossa.

Tanti gli errori commessi nella gestione dell’emergenza. Come la visita del re Vittorio Emanuele III il pomeriggio del 14 gennaio. Il monarca giunse in treno “creando intralcio alla macchina dei soccorsi, che avvenivano tramite la via ferroviaria”, come racconta ad Abruzzoweb il presidente della “Istituzione centenario del terremoto della Marsica”, Giovanbattista Pitoni.





Quali furono gli altri “errori” più importanti commessi dal governo nella gestione di quel terremoto?

Il ritardo dei soccorsi, innanzitutto. I soldati arrivarono dopo 48 ore dalla scossa, un ritardo di cui parlò anche Erminio Sipari, deputato del collegio di Pescina, che denunciò l’impreparazione dello Stato in quella situazione. Addirittura alcuni paesi più isolati rimasero senza aiuti per 20 giorni.

Nelle prime ore fu difficile anche capire esattamente dove era avvenuto il terremoto: c’era chi pensava che fosse in Campania, altri a Roma. Solo dopo si capì che era nella Marsica, con epicentro a Gioia dei Marsi.

L’arrivo del re fu un ostacolo clamoroso per i soccorsi: c’era un binario unico, quindi la linea fu bloccata a causa sua. Di questi errori ne parlarono solo i giornali stranieri, ovviamente, perché quelli italiani erano più asserviti al re.

Inoltre i militari che arrivavano nella Marsica non avevano capito molto di quanto accaduto: basti pensare che per aiutare i feriti portarono vestiari estivi, segno di assoluta disorganizzazione, anche questa denunciata da Sipari.

Come funzionava la macchina dei soccorsi?

I feriti venivano portati a Roma con i treni. Le automobili a quel tempo erano pochissime. Inoltre il giorno dopo quello della scossa forte nevicò parecchio, quindi c’era difficoltà a muoversi in automobile. A causa di neve e gelo, molte persone che si salvarono dai crolli morirono di freddo.

Il terremoto come sorprese i marsicani?

Molte donne a quell’ora si trovavano in chiesa per la prima messa del giorno. A Cerchio crollò la chiesa parrocchiale, seppellendo tantissime persone. Poi c’erano gli studenti nelle scuole-convitto al momento della scossa: ad Avezzano crollò su se stesso il convitto femminile “Clotilde di Savoia” seppellendo 300 fanciulle più alcune insegnanti: solo in sette si salvarono.

Come fu affrontata l’emergenza abitativa post sisma?

Nell’immediato furono costruite delle baracche di legno sopraelevate da terra di circa 30-40 centimetri per evitare le infiltrazioni di acqua. Tutto in legno tranne i camini fatti di malta. Ci fu una grandissima solidarietà da parte degli altri comuni italiani, ma anche esteri come quelli svizzeri, che donarono tantissime baracche.





In seguito vennero costruite delle “casette asismiche” fatte di mattoni forati: queste dovevano essere provvisorie, invece sono presenti tutt’oggi. Con il passare del tempo sono state  trasformate in case, o anche stalle. Alcune sono state cedute ai comuni, altre riscattate e passate a privati.

Come funzionò invece il processo di ricostruzione? Quali furono le falle?

Per rifare gli edifici furono stanziati dei mutui commerciabili: in pratica venivano assegnati dei mutui ai proprietari di casa che potevano decidere o di utilizzare quei soldi per la propria abitazione o di rivendere il mutuo. Grande fu la speculazione da parte di molte aziende che, dopo aver letto gli elenchi di quelli che avevano diritto al finanziamento, andavano da chi non lo aveva ancora reclamato dando in cambio un po’ di soldi per acquisire il mutuo.

Ci furono proteste o sommosse popolari?

Nel momento dell’emergenza no, neanche per i ritardi dei soccorsi: la gente non aveva forze, era completamente disorientata e senza consapevolezza di quanto accadeva. Qualche protesta ci fu solo nell’assegnazione delle baracche perché la gente temeva discriminazioni.

Come è cambiato il tessuto sociale?

Ad Avezzano l’80 per cento degli abitanti morì. Intere famiglie scomparvero annullando l’identità di alcune zone. Di quel 20 per cento che sopravvisse, molti decisero di emigrare, altri, che si trovavano già fuori al momento del sisma (erano soldati o ragazze finite in convento) decisero di non tornare più.

C’era anche la guerra in quel periodo, quindi molti partirono come soldati, mentre altri sopravvissuti furono decimati dalla successiva epidemia di spagnola. Contestualmente arrivavano gli immigrati soprattutto dalla Puglia, per coltivare la campagna. Furono molti inoltre i manovali arrivati per lavorare alla ricostruzione, sempre dalla Puglia, ai quali veniva anche assegnata una baracca in cui poter vivere.

In una situazione di immane tragedia, ci fu però anche una storia sorprendente dal sapore di miracolo…

La storia di Esterina Sorgi, una donna incinta che viveva ad Avezzano. La donna venne travolta dalle macerie della sua casa e dopo 24 ore iniziò ad avere le doglie. Con grande prontezza, pur essendo quasi immobilizzata, partorì una bimba. Con una ciocca dei suoi stessi capelli riuscì a legare il cordone ombelicale della neonata e aspettare che qualcuno la salvasse. Dopo 48 ore dalla scossa, i soldati estrassero mamma e figlia, che venne chiamata Fortunata per volere della Regina Elena.

La signora Esterina ricevette anche il premio internazionale della bontà “A. Carnegie” per il coraggio dimostrato in quella drammatica circostanza.

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