TERREMOTO: L’INGV. ”SEQUENZA IN DECRESCITA, MA NON E’ FINITA”

di Giorgio Alessandri

5 Aprile 2011 08:02

L'Aquila -

L’AQUILA – Dal punto di vista scientifico una sequenza sismica può durare un anno, due, tre, dieci. Non esiste una clessidra che stabilisca con certezza quanto tempo dopo una forte scossa di terremoto, come quella dell’Aquila del 6 aprile 2009, il territorio la smetta di tremare.

Facendo un paragone con un sisma di dieci anni fa, con le conoscenze moderne si può dire che l’attività sismogenetica della faglia Colfiorito, che provocò il terremoto di Umbria-Marche nel  1997, è durata diversi anni e, almeno dal punto di vista della percezione umana, oggi può definirsi terminata; al contempo, la zona dell’appenino umbro-marchigiano è quella più attiva, dopo, ovviamente, quella della catena montuosa abruzzese.

A confermarlo ad AbruzzoWeb è il capo dipartimento di Sismologia e tettonofisica all’Ingv, Antonio Piersanti, che spiega come “il trend dell’attività sismica all’Aquila è sicuramente in decrescita, ma non si può dire che sia terminata”. E il ritornello è sempre lo stesso: non ci sono allarmi, ma non si possono escludere a priori nuove scosse, anche forti.

Si può prevedere se e quanto durerà l’attività sismogenetica all’Aquila?

Fare previsioni di questo tipo non è possibile. Sicuramente possiamo dire che nella zona si sono attivate altre zone sismo genetiche con sequenze più o meno lunghe che, però, non hanno portato a scosse forti. L’attivazione è avvenuta sia a Sud, ma marginalmente, sia a Nord, perché si è attivata tutta l’area di Campotosto e ancora più su fino Montereale, nei Monti Reatini e Città reale. Quelle sono strutture sismogenetiche diverse che si sono attivate qualche settimana dopo il 6 aprle 2009. E sappiamo che in quelle sono zone, in linea teorica, possono essere registrati forti terremoti. Nell’ambito della sequenza post 6 aprile 2009, però, non l’hanno fatto.





Ma la cosa più difficile, sostanzialmente impossibile, è stabilire la durata di una sequenza. Quello che si può verificare è che per la zona sismogenetica dell’Aquila essa ha continuato e tutt’ora continua a rilasciare energia sismica, ma lo sta facendo in maniera marginale, con scosse che non sono continue nel tempo. Da due anni a questa parte possiamo dire che nella zona sismo genetica dell’Aquila c’è un trend in decrescita dal punto di vista del rilascio dell’energia, ma ancora non è finita.

È possibile effettuare un paragone con i terremoti del passato?

Il confronto con il passato è difficile perché le sequenze sismiche del terremoto all’Aquila sono molto antiche. Se dovessimo basarci solo sui dati storici dovremmo dire che la sequenza è finita, visto che non ci sono stati fortissimi terremoti che hanno procurato allarmi. Dal punto di vista dei documenti storici nessuno ha mai misurato le scosse che oggi registriamo con i macchinari.

Sostanzialmente all’Aquila dopo il 6 aprile 2009 è stata rilevata sequenza di scosse strumentali. È vero che ogni tanto qualche evento è stato avvertito, ma se andassimo indietro, a livello storico, nessuno  avrebbe segnalato terremoti di magnitudo 2 o inferiore. La differenza è che oggi collegandosi al sito Ingv si può verificare se ci sia stata o meno qualche scossa. Diciamo che noi studiosi, parlando del sistema appenninico, abbiamo sicuramente evidenza del fatto che le sequenze tendono a essere lunghe. Come quella di Colfiorito, che è la più ‘giovane’ dal punto di vista storico.

La sequenza sismica di Colfiorito è terminata?

Dal punto di vista della’ sensibilità popolare’ la sequenza di Colfiorito è terminata. Se dobbiamo parlare di pura statistica, però, insieme all’Appennino abruzzese, quello umbro marchigiano è quello più attivo. Se andiamo a guardare la mappa della micro sismicità in Italia prima del terremoto dell’Aquila, come numero di terremoti e non per intensità, l’area più calda era proprio quella umbro marchigiana. Se guardiamo ora la mappa vediamo che le aree più attive sono l’Appennino abruzzese ma anche quello umbro marchigiano, dove permane una micro sismicità che è più elevata rispetto al resto del territorio italiano.





Un terremoto come quello aquilano può portare a cambiamenti anche dal punto di vista orografico e sulla conformazione del territorio?

È vero che un terremoto ha effetti permanenti sul territorio. Sia nell’immediatezza della faglia, che si è rotta, sia in punti più lontani, come il Gran sasso, per esempio. La questione è: quanto grandi sono questi cambiamenti. Per il territorio dell’Aquila gli effetti sono minimi rispetto alla percezione umana. Sul Gran Sasso ci può essere stato un cambiamento di qualche millimetro. Stiamo parlando di effetti non percettibili dall’occhio umano se prendiamo per esempio una scossa di magnitudo 6.3 come quella aquilana. Importante è invece studiare questi cambiamenti per ampliare la portata delle conoscenze degli effetti sul territorio dei terremoti.

Qual è la situazione delle altre faglie nell’aquilano?

Se parliamo di sistemi sismogenetici prossimi, vicini,  la questione è complessa e non perfettamente compresa. Mi scuso se scendo nel tecnico, ma è un po’ come nella meccanica quantistica: quando ci si avvicina al sistema da studiare non si riesce a distinguere se si parla di una particella o di un’onda. Una cosa simile avviene per i sistemi sismogenetici. Se si effettua uno ‘zoom’ molto approfondito  è difficile stabilire se si può parlare di faglie distinte o di un unico sistema sismo genetico. Si tratta di due modi diversi di vedere la stessa cosa. Uno geologico e uno più fisico.

Sicuramente dopo che una faglia ha rilasciato tanta energia, perché un sisma di magnitudo 6.3 non è uno scherzo, questa in qualche modo può aver influenzato il sistema di faglie circostanti. In questo senso possiamo dire che il ‘sistema di faglie’ sotto il profilo sismo genetico dell’aquilano è stato attivato. Ciò non vuol dire significa che le  altre faglie provocheranno forti terremoti: possiamo solo dire che il sistema è stato attivato.

Nella stragrande maggioranza dei casi ciò che accade è ciò che abbiamo registrato in questi due anni: ovvero un continuo rilascio di energia in un’area ampia rispetto a quella dove insiste la faglia che si è rotta il 6 aprile 2009. Dopodiché non si può escludere che le faglie circostanti possano provocare terremoti forti. Non c’è rapporto di causa ed effetto quanto piuttosto un’interazione tra le faglie.

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