TERREMOTO: I FOTOGRAFI. QUEGLI OBIETTIVI PIOMBATI DENTRO LA NOTIZIA

di Alessia Lombardo

5 Aprile 2012 07:05

L'Aquila -

L’AQUILA – Quando l’istinto della vita è superiore a quello del fotoreporter, che tende comunque, prima o poi, a manifestarsi perché costituisce una parte integrante della propria natura.

Dolore e incredulità si accompagnano all’esigenza di realizzare foto che non si sarebbero mai volute scattare, in una prova, forse, tra le più dure dell’intera vita, al di là dell’inimmaginabile.

Scatti tra cuore e professionalità quelli riservati all’Aquila terremotata non senza lacrime e crisi emotive dai tre fotografi aquilani Roberto Grillo, Raniero Pizzi e Renato Vitturini.

Tre che, assieme a colleghi come Danilo Balducci e Marco D’Antonio, hanno raccontato con tempi e reazioni differenti la distruzione senza appello del “mostro” sin da pochi minuti dopo che il mondo era cambiato per sempre.

Un viaggio doloroso e realistico, quello affrontato da AbruzzoWeb con i tre professionisti che, in occasione del terzo anniversario del sisma, ripercorrono sensazioni e aneddoti vissuti dopo le 3.32.

Una ventina di secondi di incertezza e immagini di morte e distruzione per realizzare che stavolta non erano sulla notizia, ma dentro.





Realistico e pragmatico, Raniero torna nell’inferno di quei giorni con l’umanità e la commozione di chi, di fronte ai lenzuoli bianchi dei cadaveri, rifiuta categoricamente lo scatto, ma poi riprende a fotografare dieci giorni dopo per l’esigenza di andare avanti.

“Avevo preparato un cestino di ferro attaccato al letto – ricorda – ma c’erano soltanto cose pratiche, nessuna macchinetta. Ho fatto cinque scatti in due posti diversi verso le 8 di mattina, poi ho posato la macchina fotografica e non l’ho usata più perché ho visto alcune persone in fila e tre lenzuoli bianchi a piazzale Paoli. Lo scatto più duro è quello che non ho fatto”.

“Sono finito sulla Costa a Marina di San Vito (Chieti) – continua il fotografo, con ancora davanti ai propri occhi la voragine di via Campo di Fossa – poi ho sentito l’esigenza di raccontare attraverso le foto. Fino a luglio 2009 ho viaggiato avanti e indietro trasmettendo le foto dall’autobus al Centro, che aveva inviato dalle primissime ore della catastrofe fotografi da Chieti e Pescara. Se tornassi indietro non so se farei la stessa scelta di posare la macchinetta nei primi giorni”.

Un secondo dopo il sisma, trovati gli occhiali da vista, Roberto, che aveva nascosto una macchinetta a casa e due nello studio, nella sede poi distrutta in Corso Umberto I, ha scattato una foto con il flash per verificare l’accaduto e, dopo essersi accertato che i familiari stessero bene, è andato in centro storico.

“Ho ragionato prima da cittadino – dice – e poi da reporter. Una volta in centro, ho rivisto scene simili a quelle dell’Irpinia, ma quando sono stato lì anni fa non ce l’ho fatta a scattare, ero troppo giovane. Per rispetto non ho cercato le foto con il cadavere: l’ho rifiutato. Ho avuto un approccio più tenero, naturale e affettuoso della tragedia. ‘Virtualmente’ avevo un accordo con l’Ansa quindi per destino quello sul terremoto è stato il mio primo grande lavoro a colori”, lui che da sempre è un integralista del bianco e nero.

“Ai funerali di Stato – aggiunge – ero in una posizione privilegiata rispetto ai colleghi. Alla mamma di Lorenzo Sebastiani ho chiesto se potevo fotografare la bara del figlio e ho avuto di lei una risposta positiva perché ‘Ciccio’ mi stimava. Avrei anche potuto non chiedere il permesso, ma per rispetto l’ho fatto”.

Roberto e Renato ricordano entrambi il loro commovente abbraccio in via delle Aquile, e la discrezione del collega Balducci che non ha immortalato quell’incontro tra due “fratelli” fotografi, che poi hanno firmato la pubblicazione Terremotus.





Riservato e timido, Renato ha sempre rifiutato gli scatti ai funerali, mantenendo la stessa linea per quelli di Stato, nonostante fosse sceso in strada sin da subito per il suo giornale, anche se le sue foto sono state pubblicate solo qualche giorno dopo.

“La prima – ricorda – l’ho scattata nella mia macchinetta dopo un po’, poi ho salutato mia madre Rosa e sono andato in centro e, una volta arrivato a Santa Maria Paganica, ho capito l’entità dell’accaduto. Una foto che non ho fatto, anche se ho avuto l’istinto, è stata quella a Massimo Cinque che piangeva disperato davanti a quello che restava di casa sua”. 

“Ricordo – aggiunge il fotografo, che si è anche incatenato per protesta per la ricostruzione della propria abitazione – le urla ‘sciacalli’ a Campo di Fossa, in quel momento ero con D’Antonio. Anche in ospedale non ho fotografato i cadaveri, ma in altre occasioni per la mera cronaca non ho avuto problemi”.

Raniero, assolutamente ottimista, crede che a medio termine scatterà una foto di ricostruzione e non più di terremoto. “In questi tre anni – sostiene – non siamo stati mai fermi. Sono realista e mi informo sull’andamento delle pratiche. Secondo me quello che è stato fatto è quattro volte superiore a quanto visto in Umbria”.

Pessimista nato, Renato per il capoluogo d’Abruzzo non vede il lieto fine. “Non ho la speranza di scattare una foto di ricostruzione – sospira – Periferia a parte, se parliamo del centro storico ci vorranno oltre vent’anni. Al di là delle polemiche non ho per niente fiducia”.

Intenzionato a chiudere il cerchio della sofferenza con l’ultima pubblicazione, L’(est)etica del dolore, arrivata dopo il già citato Terremotus e dopo Un blues per L’Aquila, Roberto, in piena catarsi, processo rigenerativo, si definisce “realista” e crede che L’Aquila di oggi non sarà quella di domani.

“Una città – spiega – muore quando non ha più abitanti. Nella foto ‘Sky Line’ che scattato dopo l’estate 2009 c’era già positività: la torre di Palazzo di San Bernardino era messa in sicurezza con i puntellamenti. Si è ricostruita la città nel Settecento figuriamoci se con l’innovazione e la tecnologia di oggi resta tutto come quella tragica notte”.

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