STORIA DI ANDREA, DA L’AQUILA ALLA JAMAICA ”MI MANCA TANTO L’ARIA DELLA MIA TERRA”

di Filippo Tronca

7 Giugno 2014 08:12

L'Aquila -

L'AQUILA – “Della mia terra mi manca l’aria pura di montagna, mi manca passeggiare nei vicoli dell’Aquila, perché anche lì c’era un’aria particolare. Le radici in fondo altro non sono che una somma di emozioni. E ai terremotati dico: qui in Jamaica gli uragani sono la routine, ma le persone si sono sempre rimboccate le maniche per ripartire da zero. Bisogna aiutarsi a vicenda”.

Basta che respiro: questo un possibile e simpatico slogan che chi si occupa di turismo potrebbe adottare per promuovere le peculiarità delle montagne abruzzesi.

A inventarlo è Andrea Tresca, aquilano, emigrato venti anni fa niente meno che a Ocho Rios, in Jamaica, un’isola grande quanto l’Abruzzo, ma dall’altra parte del mondo, immersa nella luce del mar delle Antille.

Una storia di emigrazione, o se preferite di viaggio, che merita di essere raccontata.

Andrea a L’Aquila, dopo il diploma come perito chimico, ha lavorato per anni in una ditta che faceva manutenzione dei depuratori delle case circondariali, “un lavoro per me poco gratificante – spiega – poco pagato e in nero”.

Poi l’incontro con Ester, che è ora sua moglie e madre della bellissima Giulia, e la decisione di giocare a dadi con il destino, di prendere il volo, anticipando di un ventennio, quello che oggi rischia di diventare un vero e proprio esodo, come conferma l’Istat, secondo cui nel 2012 sono andate via 68 mila persone – 100 mila giovani negli ultimi cinque anni – un 36 per cento in più rispetto al 2011, da un Paese dove i disoccupati sono a quota 6,3 milioni.

Nel racconto di Andrea troviamo buoni argomenti di incoraggiamento per aspiranti emigranti. O se preferite, cittadini del mondo.





“Sono partito con quattro soldi in tasca, all’avventura. Con la mia faccia tosta e il sorriso. Da abruzzese forte e gentile, insomma. E con una buona conoscenza dell’inglese e dello spagnolo. Ma devo dire che sono stato fortunato: in Jamaica, che pure è un paese povero, mi sono sentito accolto, nessuno mi ha mai detto 'tornatene a casa tua', non mi hanno mai fatto sentire uno di troppo. Ho cominciato a fare l’interprete in un Grand Hotel, poi a fare le statistiche del gradimento dei clienti. Ho frequentato un corso di formazione per conoscere meglio la mia nuova terra, la sua natura, i sui tesori, le sue tradizioni. E sono diventato una guida turistica”.

Ora Andrea lavora con successo come resident manager, ovvero organizza il soggiorno dei turisti, in particolare italiani, prendendosi cura di tutte le loro esigenze. E ha trovato per lui e la sua famiglia la tranquillità e un relativo benessere.

“Vuoi dire che guadagni più che in Italia, per lo stesso lavoro?”, gli chiediamo incuriositi.

E lui risponde. “Beh, si, ma oramai non è difficile guadagnare più che in Italia, dove ci sono gli stipendi più bassi d’Europa. Lo dico con il cuore infranto, ma anche in Jamaica, che non è annoverato tra i paesi ricchi, non è difficile passarsela meglio”.

“Gli amici italiani e aquilani – prosegue Andrea – che vengono a trovarmi, o con cui sono in contatto grazie ai social network, che ha hanno accorciato incredibilmente le distanze e le dimensioni del mondo, mi raccontano di una situazione molto difficile. Eppure io faccio una riflessione: solo noi italiani del mondo siamo milioni, l’Italia è un Paese meraviglioso, pieno di tesori e bellezza, tutti potrebbero vivere con il solo turismo, ne sono convinto, da persona che lavora da vent'anni nel turismo”.

E da resident manager Andrea è consapevole che il brand, il marchio, è importante, ma quello italiano non è certo al top.

“Una volta essere italiani era un vanto, un gran biglietto da visita. Adesso vi assicuro che ci sono situazioni in cui devi quasi vergognarti, spesso ti irridono, siamo rimasti allo stereotipo di 'mafia, spaghetti e mandolino', con l’aggiunta del bunga-bunga berlusconiano e delle tante storie degradanti e di corruzione. Meno male che ci sono la buona cucina, l’arte, la cultura, le capacità e la professionalità che vengono sempre apprezzate, da quella di un cameriere a quella di un ingegnere. Se la nostra immagine nel mondo dipendesse solo dalla politica…”.

Alle ultime elezioni politiche, tra l'altro, Andrea voleva votare, ma non gli è stato possibile.





“In Jamaica non c’è l’ambasciata italiana, ma solo una console onoraria bravissima. Per problemi organizzativi e burocratici il voto è saltato, mancavano alcuni timbri. Però avrebbe più diritto a votare e scegliere da chi essere governato uno straniero che vive in Italia, rispetto a me che vivo oramai a diecimila chilometri lontano dall’Italia e che non subisco gli effetti dellle mie scente elettorali”.

Il ritorno più doloroso di Andrea a L’Aquila è avvenuto dopo il terremoto del 2009.

“Per me è stato un trauma, i miei genitori hanno perso la casa, ma poco importa, l’importante è la vita. Ora abitano al progetto C.a.s.e., hanno un appartamento confortevole. Però mi metto nel cuore e nella mente dei miei concittadini che devono vivere lì in esilio, in attesa di un ritorno nella loro città. Per me sono degli eroi”.

Della sua L’Aquila degli anni '80, Andrea ricorda le giornate passate al vicolo Pizzodoca, ritrovo dei giovani studenti lungo il corso principale della città, ora silenzioso e puntellato. La mitica discoteca Squeak, vicino l’ex ospedale, e gli altrettanto storici locali come lo Sweet Home e il Tambo, ma anche le passeggiate nei vicoli e poi le discese a Valle fredda, “perché sono uno degli aquilani nato con gli sci ai piedi, e in Jamaica la neve mi manca; un po’ meno il freddo… Vi assicuro che non è male vivere in una terra dove non c’è l’inverno e il clima è sempre mite”.

Destino post-sismico di tanti aquilani è quello di essere diventati giocoforza dei 'terremotologi'.

E Andrea, con opportuna distanza critica di circa diecimila chilometri, con la possibilità di relativizzare con un altrove ciò che  a L'Aquila è toccato in sorte, qualcosa si sente di dire, senza prosopopea accademica, in materia di catastrofi e ricostruzioni.

“Chi vive nei Caraibi deve mettere in conto almeno un uragano, che se sei fortunato ti spazza via la casa e tutto quello che hai.  Ci sono persone che sono state vittime anche di quattro catastrofi naturali. E ogni volta si sono rimboccati le maniche e la vita è ripartita. Una delle cose che mi fa sentire a casa, così lontano dalla mia terra, è che qui c’è meno egoismo rispetto ai Paesi considerati più evoluti e avanzati, c’è meno gente che pensa solo ai fatti suoi. Dopo l’uragano Gilbert del 1988 intere aree sono rimaste anche sei mesi senza corrente elettrica. E in questi casi, se non hai uno spirito di comunità, se non ci si aiuta a vicenda, non puoi farcela, da solo non vai da nessuna parte”.

 

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