SCIARRA IL BRIGANTE FINISCE IN MUSICA, IL TERAMANO CHE RUBAVA E DAVA AL POPOLO

di Filippo Tronca

7 Settembre 2014 10:52

Teramo -

TERAMO – C’è stato un tempo in cui le campagne teramane avevano un loro re, con un cappellaccio di feltro come corona e un archibugio come scettro. 

Sua reggia furono le foreste del Monti Gemelli, il trono uno sperone di roccia vicino alle Grotte di Sant'Angelo, tra felci e ginestre, alle porte minacciose delle gole del Salinello.

Marco Sciarra fu chiamato quando nacque poverissimo a metà del '500 sui monti della Laga in una contrada di Rocca Santa Maria. 

Il suo nome indicava l'essere proprietà dei principi romani, gli Sciarra appunto, al pari di una bestia e di una terra. 

Flagello di Dio e re della campagna scelse lui di farsi chiamare, brigante terrore dei principi, che con un esercito di pastori senza più gregge e contadini senza più terra, di popolani affamati e latitanti e anche di tagliagole e farabutti, seppe tenere testa per anni e anni a due eserciti, quello del Papa di Roma e quello dei Viceré di Spagna.

Il merito di aver riportato alla ribalta questo personaggio, oltre alla cerchia ristretta degli addetti ai lavori, va al musicista Franco Palumbo, in arte Roppoppò, che nel suo ultimo disco ‘Santi poeti e Briganti’, da mesi in distribuzione nelle edicole abruzzesi assieme al periodico Lu Cantastorie, ha dedicato, una delle più belle e intense canzoni proprio a Marco Sciarra.

Preziosa a tal fine la consulenza di Elso Simone Serpentini, storico teramano, nel che ne ha minuziosamente ricostruito la vita nel libro 'Marco Sciarra – Flagello di Dio e re della campagna.

“Come cantastorie – spiega Palumbo – raccolgo quello che il territorio ha da raccontare e lo trasformo in musica e parole, e la figura di Marco Sciarra è una di queste storie, molto interessante, perché fu un brigante particolare. Di lui canto che fu ‘un brigante iniquo e malandrino’, ‘un’empia furia dall’inferno uscita’, ma anche che fu uno che ‘odia i potenti, vuol bene ai tamarri, toglie i ducati al ricco possidente, li carica sui muli e sopra i carri, e li distribuisce tra chi non ha niente’.  Una storia che non poteva rimanere abbandonata dentro la grotta del Salinello”.

E narravano infatti i cantastorie dell'epoca che Sciarra era molto apprezzato tra il popolino, perché aveva sempre cura di redistribuire parte del bottino tra il popolo ridotto alla fame dalle carestie e dalla feroce tassazione imposta in particolare dai dominatori spagnoli.

A Norcia, Sciarra il brigante saccheggiò grandi quantità di grano ai ricchi e lo distribuì poi in piazza al popolo.

I suoi uomini, a differenza di altre bande di briganti, non potevano abusare delle donne durante le scorrerie e dovevano pagare il conto nelle taverne dove si fermavano a fare bisboccia.

Si racconta che presso Ripattoni, in una delle sue scorrerie s'imbatté, al comando della sua banda, in un matrimonio. 





Mentre tutti erano terrorizzati, temendo di essere derubati, scese da cavallo e invitò tutti i presenti a mettere del denaro dentro al suo cappello, che consegnò poi allo sposo, chiedendogli il permesso di fare un ballo con la sposa.

Al termine si allontanò, lasciando tutti senza parole.

In un'altra occasione, avendo avuto sentore che il grande poeta Torquato Tasso, avvertito della sua presenza nella zona, aveva paura di proseguire il suo viaggio, lo fece avvisare che gli garantiva la sua protezione, casomai avesse incontrato una banda di briganti.

Al di là di questo insolito fair play, anche un astuto comprarsi la complicità del popolo, la vita di Marco Sciarra, immaginiamo oltre ciò che Serpentini scrive, fu un faticoso assediare, saccheggiare e ricattare, un estenuante tendere agguati e guardarsi alle spalle, un fuggire e nascondersi senza pace né tregua.

“Punto di forza di Sciarra – spiega lo storico Serpentini – era la velocità che riusciva ad imprimere ai suoi spostamenti, spesso da un regno ad un altro, l'avere un esercito che arrivò a mille uomini, composto da pastori e montanari che conoscevano ogni sentiero, ogni rifugio delle montagne dell'Appennino e della campagna laziale. E poi il gran numero di arruolamenti che, in tempi di miseria, Sciarra riusciva ad assicurarsi oltre alla formidabile rete di informatori, complici e sodali tra il popolo” .

Molto più odiati dei briganti erano i gabellieri del re e del Papa, che strozzavano i sudditi con tasse che andavano in gran parte a finanziare il lusso e lo scialo di preti e cardinali, di duchi, conti e cortigiani.

Papa Sisto V, visti i continui insuccessi militari contro il brigante Sciarra, decise di cambiare strategia.  

In un editto promise centinaia di ducati a chi aiutasse a catturare i briganti e stabilì che “ai banditi che ammazzeranno un altro capo bandito o lo darà vivo nella mano della corte, avrà la grazia per lui” e duecento ducati per tre uomini a scelta.

Tra le tante bande che imperversavano nello Stato Pontificio si diffuse il reciproco sospetto e tanti furono i tradimenti. 

Il terribile brigante frate di Guercino fu venduto da un suo uomo, la sua testa venne mozzata, così come quelle di altre decine di briganti e manutengoli, finite infilzate in cima ad un palo ed esposte a Castel Sant'Angelo, a severo monito per il popolo fellone.

Ma la testa di Sciarra rimase salda sul collo. 

Scampò però ad un avvelenamento in un convento, la rabbia e il sospetto gli annebbiarono la mente e cominciò a dimenticare ciò che lo rendeva potente. 





Con i suoi uomini sparse il terrore nei paesi che si specchiavano all'epoca sul lago del Fucino, non risparmiando dai saccheggi i poveri.

Fu poi costretto alla fuga dal miracoloso intervento di San Cesidio, che fece trovare ai paesani casse di polvere da sparo dentro un fienile.
Paradossi della storia sacra: Sciarra, flagello di Dio, mentre a Roma era riunito il conclave per l'elezione del nuovo Papa, si accampò alle porte della città eterna, condizionando l'esito delle votazioni con le sue trattative con i cardinali degli opposti schieramenti. 

Un brigante insomma tra i grandi elettori occulti del Papa di Roma.

Paradossi marinari: il montanaro Marco Sciarra lo ritroviamo con i suoi uomini sfuggiti alla cattura, arruolato sui galeoni della Repubblica di Venezia, per combattere contro i terribili i pirati uscocchi.

La cosa mandò su tutte le furie il papa, e per risolvere il conflitto diplomatico i dogi veneziani escogitarono l'espediente di spedire Sciarra a combattere sull'isola di Candia, dove imperversava la peste, sperando che ne restasse vittima.

Sciarra, però, fiutato l’agguato, rubò una galera e spiegò le vele verso sud, tornando a fare il brigante sulle sue montagne.

“Ma l’ora fatale era vicina. Sbarcato a Senigallia, cercò di ricostituire la sua truppa, anche se ormai l'esercito del Papa e quello del re controllavano il territorio e il consenso dei popolo era venuto meno”.

Sciarra riuscì comunque a mettere insieme un centinaio di uomini, ma la fortuna gli aveva voltato le spalle.

Pochi erano i furti e rapimenti che riusciva a mettere a segno, magri i proventi delle sue scorribande. 

E lui aveva perso lucidità, audacia e carisma. Non si fidava più di nessuno e dormiva ogni notte in un posto diverso, il suo sonno era sorvegliato da Moretto, un giovane di origine teramana che si era riportato dalla Dalmazia.

I suoi luogotenenti Battistello e Brandimarte Vagnozzi, l'uno all'insaputa dell'altro, lo vendettero al Papa, promettendo di consentirne la cattura, ma senza riuscirci. Una notte, pur di guadagnarsi il compenso promesso, lo sorpresero così nel sonno e gli tagliarono la gola sul Colle della Croce nei pressi di Ascoli Piceno. 

Così morì poco più che quarantenne il re della campagna, per mano di quelli che erano stati i compagni fedeli della sua breve ma intesa vita da brigante.

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