IL PARROCO DEGLI ULTIMI TRA LE FOLLIE DELLA STORIA, UN RICORDO DI DON NATALE MARIANI

di Filippo Tronca

27 Agosto 2017 09:15

L'Aquila - Cultura

L'AQUILA – “Nulla può il mingherlino sacerdote, il bambino ha visto la scena, resta terrorizzato, con le lacrime agli occhi d'istinto corre alle porte del vicinato, urlando a squarciagola, 'I fascisti hanno catturato don Natale, lo stanno portando in piazza!'”

Parole lontane, che rimbombano dietro la cortina dell'oblìo della storia collettiva, in quel pomeriggio d'ottobre del 1922, quando nella piccola Tione degli Abruzzi, in provincia dell'Aquila, nella valle incontaminata attraversata dal fiume Aterno, arrivò una squadraccia di camicie nere della prima ora urlando pittoreschi slogan , tipo “non abbiamo paura della galera”, e “noi siamo contro la vita comoda!”. Urlato, da quanto si racconta, da una teppaglia di nullafacenti di citta' in faccia a gente di montagna, che da sempre si spaccava la schiena, dall'alba al tramonto, nei campi, nei boschi e sui pascoli. Piombarono in paese per mettere le mani addosso e purgare con l'olio di ricino un parroco piccolo e mite, reo a loro dire di essere un seguace di don Luigi Sturzo, un democratico insomma.

Quel parroco era don Natale Mariani, uno dei sacerdoti più esemplari del clero aquilano, nato nel 1889 a Bazzano, frazione aquilana, ordinato nel 1915 e morto nel 1951, lasciando un vuoto incolmabile e una memoria ancora viva del bene che ha lasciato in terra. 

A questa grande figura ha dedicato un romanzo Paride Duronio, maratoneta, scrittore e poeta per sincera passione, presentato a Tione degli Abruzzi nel corso delle recenti festività, nella piazza del paese dove solo grazie all'intervento del commissario prefettizio si sono finalmente sbloccati i lavori della ricostruzione post-sismica del bellissimo centro storico.

Già ristrutturato e appena inaugurato, il palazzo dove visse il grande scrittore Massimo Lelj, autore delle “Stagioni al Sirente”, una delle più potenti e commoventi descrizioni della civiltà contadina al suo tramonto, nella sua poesia e durezza.

“Di Don Natale mi parlava la mia povera mamma – esordisce Paride Duronio – e a distanza di anni, qualche lacrima le affiorava sul volto, velata però da un sorriso. Qui  tutti i piu' anziani lo ricordano, a Don Natale. Così ho deciso di dedicargli un libro, a beneficio delle nuove generazioni, e di quelle a venire”.

Appena arrivato a Tione, si racconta nel libro, don Natale disse ai suoi fedeli, ''Sono nato in una famiglia ricca, ma non sono venuto qui per accumulare ricchezze; ho fatto voto al Signore di vivere in povertà. E vorrò spendermi soltanto per voi, fino a morire poverissimo''. 

“E mantenne la promessa – spiega Duronio – cambiando per di più in trent'anni il volto e l'anima del paese, puntando soprattutto sullo spirito di comunita', sull' incontro, spalancando le porte della sua piccola parrocchia e puntando sull'istruzione dei giovani. Comprese che la vera necessità della popolazione, stremata dal terremoto del 1915 e dalla prima guerra mondiale, era di dare un educazione ai gioventù: fino agli anni Venti del ‘900 nei nostri piccoli paesi la scuola pubblica si arrestava alla quarta elementare, per cui i giovani erano senza futuro, obbligati a servire nei campi i possidenti locali, per poi vivere in miseria.





Così organizzò, usando a volte gli inginocchiatoi dei banchi della chiesa per sedie e le loro panche per scrittoi, corsi di insegnamento superiore per giovani, anche dei paesi vicini. E cosi' tanti figli di contadini e pastori, con lo studio, hanno aperto i loro orizzonti, acquisito competenze, anche per far valere i loro diritti,  hanno trovato lavoro, molti nella pubblica anministrazione, uscendo dalla miseria”.

E fu questa dedizione ai giovani e alla cultura a rendere mal tollerato Don Natale dai gerarchi locali del regime, che lo tenevano sotto stretta osservazione.

I giovani di Tione, infatti, invece di frequentare la 'Casa del Fascio', affollavano la scuola di don Natale, dove, senza dare troppo nell' occhio, si insegnava la pace, il culto della vita e della bellezza.

“Gli allievi più volenterosi di don Natale – a parlare è ancora Duronio – erano i reduci dalla guerra, tutti semianalfabeti, che dovevano farsi scrivere le lettere da chi aveva dimestichezza con la scrittura. Forse avevano capito che l'ignoranza porta alla violenza, che loro avevano sperimentato sul fronte. La scuola di don Natale era aperta  tutti, anche ai suoi detrattori, che scrivevano missive anonime di segnalazioni al federale del Fascio, paventando il sospetto che quel parroco non fosse ligio al regime e alla sua ideologia. Anche il vescovo dell'epoca ricevette queste lettere. Ma a difendere don Natale, a fare quadrato intorno a lui fu la stragrande maggioranza dei paesani, che assicuravano che non faceva politica e che non aveva idee strampalate per la testa”. 

In altre belle pagine del romanzo si racconta dell'arrivo dei tedeschi nella valle, con in testa il comandante Schuster, e dietro il codazzo dei fascisti locali a fomentarli e praticare delazione.

Appena arrivati, cominciarono a saccheggiare le dispense, costrinsero tutti gli abili al lavoro a tagliar legna e frasche per mimetizzare campagnole e sidecar. Don Natale pero' impedì loro di utilizzare la chiesa come magazzino e garage, parandosi davanti la porta e ammonendoli con voce ferma: “Non permetterò che si entri in questo tempio sacro, dovrete passare sul mio corpo”.

Molti paesani furono poi deportati in treno a Francavilla, sul fronte, e schiavizzati per scavare tunnel e trincee. 

Molti tionesi, in primis i renitenti alla leva e i disertori minacciati di pena capitale, fuggirono nei boschi, per rifugiarsi nelle Pagliare di Tione, villaggio d'altura alle pedici del monte Sirente. 

Don Natale a rischio della propria vita si prodigò di persona a portar loro viveri e altri beni di prima necessita' con un asino, tornando in paese con fascine di legna per non destare sospetti agli occhi degli sgherri nazisti e fascisti.





Ma un giorno fu pedinato da un soldato tedesco.

Don Natale se ne accorse, e deviò il percorso fuggendo in direzione opposta  a quella che portava al rifugio dei suoi paesani.

Fu catturato vicino a Cavalletto d'Ocre, a pochi chilometri da L'Aquila, dopo una notte di cammino al chiaro di luna. 

Don Natale fu messo in prigione nel capoluogo d'Abruzzo, uscendone per l’intervento dell’arcivescovo di allora, Carlo Confalonieri, che si merito' dagli aquilani l'encomio di “defensor civitatis” per aver convinto gli alleati a risparmiare la citta' da un secondo bombardamento dopo quello del dicembre 1943,  e per aver salvato tanti abruzzesi e aquilani dai rastrellamenti e dalle deportazioni, nascondendoli nei conventi e nelle chiese. Nulla pote' per evitare l'eccidio dei Nove martiri aquilani, le stragi di Onna e di Filetto.

Don Natale tornò al suo paese accolto con sollievo ed entusiasmo. I tedeschi di li' a poco batterono in ritirata.

E il mingherlino parroco tornò a fare fino alla morte quello che aveva sempre fatto.

Cominciando questa volta dallo scrivere e mettere in scena, coinvolgendo tutto il paese,  la rappresentazione teatrale della vita di san Vincenzo martire. 

In una lettera di un parrocchiano si legge che “Don Natale ha sempre la chiave alla porta di casa, giorno e notte, e la sua casa è un rifugio ed un ristoro per chiunque. È sempre sorridente e quando si reca in città riporta sempre abbastanza, ma è più quello che mangiamo noi che lui”. 

“La sua figura per tutte queste ragioni è ancora attualissima. In questi paesi che si spopolano, servono persone innovative, coraggiose e aperte, è bello vedere un paese antico e di pietra. Ma serve un'anima, quella delle persone vive e solidali tra loro che lo abitano”, conclude Duronio. 

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